di Francesca Orioli
Agosto 2018
Rameswaram è il lembo di terra più a est dell’India del sud: terra che sembra sciogliersi nel mare diventando sempre più sottile fino a scomparire, per poi riemergere una manciata di chilometri più avanti e diventare Sri Lanka: lacrime di Shiva protese verso la grande lacrima di Buddha.
Da queste parti l’acqua assume un significato speciale: oltre ad essere materia predominante della geografia del luogo è elemento sacro e motivo principale del pellegrinaggio dei fedeli in cerca di benedizione ed energia cosmica.
L’arrivo sull’isola è spettacolare. Due “ponti sullo stretto” collegano le terraferma con il frammento di terra su cui poggia Rameswaram: un ponte per le auto, un ponte per il treno. Le foto dai finestrini sono un must anche per i pellegrini, anzi loro si espongono anche dalle porte del treno rigorosamente aperte con vista a picco sull’oceano, in barba ad ogni barriera di sicurezza.

L’atmosfera che si respira sull’isola è una mescolanza tra la ricerca di spiritualità che proviene da tradizioni antiche e lo spirito vacanziero dei pellegrini, che, alla benedizione di Shiva, associano la visita alle bellezze della natura e ai siti storici.
Il percorso devozionale comincia con la visita al tempio, il Ramanathaswamy Temple. Schiere di fedeli in formato famiglia fanno la fila ai vari “theertham” interni al santuario, i luoghi in cui ricevere l’acqua benedetta dal bramino che la versa da una brocca sulla testa e sul corpo. I devoti vagano fradici in cerca di un’altra secchiata d’acqua o di una ‘changing room’ per indossare il cambio asciutto; i turisti occidentali, pochi anzi pochissimi, si destreggiano, invano, tra le pozzanghere che ricoprono il pavimento.
Il tempio in sé, come valore artistico, non è tra i migliori dell’India del sud: quattro gopuram, i torrioni d’ingresso, dipinti di giallo acceso racchiudono colonne color crema con statue coloratissime in stile carretto siciliano, leoni con sembianze da mostri che mostrano i denti, infiniti lingam di Shiva tutto attorno al sacrario interno non accessibile ai non hindu. Ma certo l’animosità che regna in un questo tempio è davvero unica.

Il pellegrinaggio prosegue con il bagno sacro nell’oceano. Per questo rito ci sono gli appositi ghat, il più maestoso è l’Agni Theertham nei pressi dell’ingresso est del tempio. Impreziosito da tre archi merlati è degno di un palazzo da maraja…con vista mare.
Già dall’alba qui è il luogo più frequentato: decine e decine di questuanti accompagnano il pellegrino dal gopuram rivolto verso il sole nascente al bagno sacro, speranzosi che in tutto il giro di offerte agli dei ci scappi qualcosa anche per loro.
Gruppetti di fedeli si radunano attorno ad un santone per preghiere e riti infarciti di fiori, noci di cocco e poverine colorate.
A fiotti sono già immersi nel mare: un senso di libertà per gli uomini che nell’acqua rimangono in pantaloncini e lavano il loro lungi, una bella pesantezza per le donne che si devono tenere addosso 5 metri e passa di sari fradicio.
Ma non tutti pregano e disperdono in mare fiori frutti e polverine con spirito di sottomissione, in molti rendono omaggio al dio Selfie. Non mancano i gruppi casinari più simili a scapoli in addio al celibato o tifosi in festa per lo scudetto.
Chi non ci sta sui gradoni dei ghat si accalca sulla spiaggia, che sembra più una discarica che un lido balneare, eppure ci sono anche le spazzine che raccolgono un pò di monnezza ma qui servirebbe una ruspa (oltre ad un bel cambio di mentalità).
Rimaniamo ore ad osservare le gesta dei fedeli, anche perché non c è poi così tanto da fare a Rameswaram soprattutto nelle ore più calde, che sono tante. La folla è fitta, chi è ancora asciutto, chi è già fradicio e si incammina con la valigetta per cambiarsi in uno dei tanti negozietti-spogliatoio. Qui comprano anche una tanica di plastica per portarsi a casa l’acqua dell’oceano per prolungare anche a casa propria i benefici del pellegrinaggio.
Un santone dall’aria annoiata somigliante più ad un mafioso che ad un dispensatore di grazia, raduna attorno a sè qualche fedele, impone loro di impastare una farina bianca con semini e farne polpette, ripetere salmi che lui recita con aria di sufficienza, battersi le tempie con gesti ritmici. Con le mani piene dì anelli dorati sbatte noci di cocco, che, posati accanto alle polpette, alla polverina magica e ai fiori assicurano una tacca verso l’illuminazione. Finita la cerimonia finisce tutto in mare, tranne il cocco che diventa dessert per le capre.
Prima il dovere poi il piacere: assolti tutti i riti religiosi i pellegrini diventano turisti e si fanno portare dai tuk tuk a Dhanushkodi la città un tempo fiorente luogo di scambio tra India e Sri Lanka oggi divenuta fantasma dopo le devastazioni del ciclone del 1964. I pellegrini-turisti vengono a passeggiare tra le rovine abbandonate a ridosso della spiaggia in questa stretta lingua di sabbia avvolta nell’oceano. Qui si scatenano le bancarelle: le conchiglie fanno la parte del leone, decorano specchi, creano tende, monili e portafortuna indispensabili per una casa benedetta.
Il piacere massimo è raggiungere la punta estrema l’ultimo punto calpestabile prima della fine dell’India. Qui si sciolgono tutti i freni in tema di selfie, a fiotti ci fermano per chiederci una foto con loro, per rendere più esotico il loro album della vacanza. Poi le foto romanzate, la posa più in voga è la ripresa di spalle e lo sguardo perso verso l’oceano…in fondo è spiritualità anche questa.
INFO PRATICHE
Noi abbiamo raggiunto Rameswaram in treno dalla stazione di Madurai, prendendo quello delle 6,55 del mattino che arriva alle 10,30 (altri orari su https://enquiry.indianrail.gov.in/ntes/index.html – selezionando ‘train beetwen station’ – from Madurai Junction MDU to Rameswaram RMM). Ci sono anche treni notturni espressi ma è indispensabile arrivare a Rameswaram con la luce per godersi lo spettacolo dell’arrivo in mezzo al mare.
Per il ritorno abbiamo preso il giorno dopo il treno delle 11,20 dalla stazione di Rameswaram per Madurai.
Il paesaggio esterno lungo il tragitto è abbastanza noioso ma il cinema di umanità sul treno è un ottimo passatempo. E noi eravamo teatro per tutti i passeggeri soprattutto quando abbiamo tirato fuori ila forchetta per l nostro pongam di riso e patate. Più che teatro forse circo. E al momento di mettere nello zaino la spazzatura e non buttarla come loro dal finestrino deve essere stato l’apoteosi della spettacolo.
A Raameswaran abbiamo soggiornato all’Hotel Amman Residency ma non mi sento di consigliarlo, è abbastanza lontano da tutto, pulizia scarsa.
Per raggiungere Dhanushkodi e l’estrema punta il mezzo più utilizzato è il tuk tuk sono circa 40 km andata e ritorno dal centro di Rameswaram (noi abbiamo pagato 750 rupie a/r con attese dell’ autista). Ci sono anche minivan collettivi e ci dovrebbe essere anche un autobus di linea.
Nei pressi del Theertham Agni c’è un molo da cui partono gite in barca di 30 minuti che si avvicinano alla ‘fine dell’India’, zigzagando tra la moltitudine di barche di pescatori. Abbiamo visto anche un noleggio biciclette.
Al Ramanathaswamy Temple non si possono portare borse, nè macchina fotografica e nemmeno cellulari, ogni negozietto attorno alle 4 porte d ingresso fa il servizio di “cell box”, oppure, come noi, si entra a turno.
Un buon posto dove ci siamo trovati bene per mangiare è il Ganesh Mess Thali nei pressi della porta ovest del tempio, il thali tradizionale arricchito con un’ salsina di verdure verde tipo bietole che non abbiamo più ritrovato in terraferma.
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