A MILANO CON RENZO E LUCIA: LA PASSEGGIATA CHE S’HA DA FARE

di Francesca Orioli

In quel ramo di Corso Buenos Aires, tra due catene non interrotte di negozi, cominciamo la nostra passeggiata nei luoghi milanesi citati dal Manzoni nei Promessi Sposi.

Ci risparmiamo i primi dieci capitoli, ambientati a Lecco e a Monza, e ci catapultiamo direttamente all’XI quando Lorenzo, o come dicevan tutti Renzo, con la lettera di Frà Cristoforo nella giubba, arriva a Milano.

Lasciata la ‘promessa’ nelle grinfie della monaca, il nostro filatore di seta parte da Monza e si incammina verso Milano. Sempre dritto gli avrebbe detto il navigatore dell’epoca, 16 km in cui ha ammazzato e resuscitato col pensiero quel ‘birbone’ di Don Rodrigo almeno 20 volte mentre attraversava l’aperta campagna. Forse non era neanche troppo distante da casa mia quando deve essersi accorto che all’orizzonte compariva il duomo di Milano:  salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto’. Nel 1628 il duomo era ancora un cantiere: la costruzione era iniziata nel 1386 per volere di Gian Galeazzo Visconti e quanto il nostro Renzo lo ammira come l’ottava meraviglia  mica c’erano già tutte quelle guglie di bianco splendore e tanto meno la madunina non poteva brillare de luntan.

Era una bella giornata quell’ 11 novembre, il cielo era sgombro dalla scighera quando il montanaro vede, voltandosi indietro con il cuore in mano, il suo amato monte Resegone e si sentì tutto rimescolare il sangue. Ma lui doveva andare al convento dei cappuccini di frate Bonaventura e chiede ad un buon uomo che gli fa attraversare il lazzaretto (ora non ci curiam di questo luogo, tanto è ancora vuoto, ma guardiamo e passiamo: ci ritorneremo) e prendendo a ‘mancina’ arriva a Porta Venezia – all’epoca la Porta Orientale. Il convento si trovava all’altezza dell’odierno Palazzo Rocca Saporiti, quell’edificio neoclassico con le statue sul tetto.

Palazzo Rocca Saporiti, dove sorgeva il Convento dei Cappuccini

 

‘Dove ora sorge quel bel palazzo, con quell’alto loggiato, c’era allora, e c’era ancora non son molt’anni, una piazzatta, e in fondo a quella la chiesa e il convento de’ cappuccini, con quattro grand’olmi davanti’

Purtroppo il convento non è più visibile, si trattava di una struttura intitolata alla Concezione di Maria Vergine Immacolata, dove risiedevano i padri cappuccini dalla fine del ‘500. Il complesso venne demolito nel 1810 con la soppressione degli ordini monastici decretata sul finire del ‘700 e su quel terreno un biscazziere monopolista dei giochi d’azzardo alla Scala, Gaetano Belloni, commissionò la costruzione di quella reggia visibile anche agli occhi del Manzoni. Una facciata che non passa inosservata, che parte da un elegante bugnato in granito rosa, che prosegue con un monumentale  colonnato in stile ionico e che si conclude con una scenografica balaustra con statue neoclassiche  di ispirazione palladiana. Pare che tutta la lunghezza del colonnato, all’interno, fosse adibita ad un grande salone da ballo. Il suo nome attuale – Palazzo Rocca Saporiti – deriva dalla vendita ai marchesi genovesi con questo cognome da parte di Sciur Belloni, dopo che, con la fine dell’era napoleonica, anche l’azzardo fu soppresso e il biscazziere andò in malora. Oggi il palazzo è ancora privato e sede principalmente di uffici.

Torniamo al ‘600. Il nostro Renzo, non trovando il frate desiderato prosegue si dirige verso il duomo, seguendo il fragrante profumo della lotta per il rincaro del pane.

‘Nella strada chiamata la Corsia de’ Servi, c’era e c’è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce’

Corsia dei Servi era il nome dell’attuale Corso Vittorio Emanuele, la via era così chiamata per la presenza del convento di Santa Maria dei Servi dal 1317. Anche in questo caso la dominazione napoleonica diede la propria zampata sopprimendo l’ordine dei frati servi di Maria nel 1799 e decretando il declino del convento che venne chiuso definitivamente nel 1836. Al suo posto venne eretta l’attuale chiesa di San Carlo al Corso, in stile neoclassico ispirata al Pantheon di Roma e dedicata a San Carlo Borromeo.

La tarda del Prestin

Anche il Forno delle Grucce purtroppo non esiste più. Il forno, assaltato dalla folla l’11 novembre 1628 a seguito del rincaro dei prezzi del pane, sorgeva all’altezza dei numeri 3 e 5 di Corso Vittorio Emanuele dove ora rimane solo una targa commemorativa. In gergo milanese era El Prestin de Scansc, ovvero il panettiere della famiglia Scansi. Gran pubblicità fece il Manzoni al fornaio tanto che il proprietario il 24 dicembre 1870 inviò dei dolci al romanziere con un biglietto di ringraziamento. Il Manzoni, accaparratosi le vivande, rispose a sua volta con un biglietto autografato che venne conservato nella bottega fino al 1919 anno della chiusura e demolizione e poi archiviato presso la biblioteca Braidense di Brera.

‘Questa poi non è una bella cosa – disse Renzo tra sé – se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi?’ Riflette cosi il nostro protagonista di fronte alla folla che si stava disperdendo dopo all’assalto al Forno delle Grucce, per protestare contro il rincaro dei prezzi del pane e la penuria di farina sul mercato. Ma incuriosito dal comportamento della folla e dal dirigersi verso la casa del vicario – ritenuto dal popolo il responsabile della carestia e dell’aumento dei prezzi  – Renzo segue il ‘torrentedi gente che lo porta fin verso Cordusio che allora non era una piazza ma una contrada, un rione che si sviluppava più o meno attorno all’attuale piazza dei mercanti. L’odierna piazza Cordusio era solo uno ‘slargo’ ma vantava un passato glorioso: il suo nome deriva infatti da “Curia ducis“, ovvero ‘corte dei duchi’ al tempo dei ducati longobardi. E proprio qui il Tramaglino dopo aver capito il doppio gioco del gran cancelliere Ferrer, re dei sovranisti, viene punto sul vivo delle proprie ferite del sopruso subito dai potenti voltagabbana e frodatori del popolo, viene travolto nella debolezza di qualche bicchiere di troppo all’Osteria della Luna piena e  indotto all’inganno fino all’arresto cadendo nella trappola. Quanto gli è costato aver alzato troppo il gomito e la cresta!

Piazza Cordusio

Finisce presto il soggiorno di Renzo che dopo le sue disavventure con la legge è costretto a incamminarsi verso Bergamo. Certo il nome di ‘Fermo’ della precedente edizione del Manzoni proprio non gli si addiceva, si fa i chilometri il ragazzo! Non lo seguiamo certo fin là, lo vogliamo immaginare nel suo cammino e lo vediamo riposare nel ‘letto di paglia’ lungo l’Adda mentre pensa a quella che dovrebbe essere la sua quinta notte di nozze. 

Passiamo alle vicende di Lucia che, tradita dalla monaca di Monza, finisce nelle mani dell’Innominato. Visto che siamo appiedati e rimaniamo a Milano, non possiamo neanche seguirla nel castello dell’Innominato. La sinistra dimora, descritta all’inizio del capitolo XX viene identificata con la rocca di Somasca, che sorge sul un’altura a 185 m. sopra l’abitato di Vercurago in una posizione strategica per dominare tutta la vallata storicamente posto al confine tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia. Per l’Innominato, senz’altro una posizione privilegiata per dominare tutto il territorio circostante.

‘Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi e non vedeva mai nessuno sopra di sé, né più in alto’

La struttura risale al XIV secolo e oggi è ridotta ad un rudere in cui si distinguono i muri perimetrali, un torrione e una chiesa.

E’ da quella collina che il tremendo Innominato scende fisicamente e simbolicamente per andare incontro al cardinal Federico Borromeo e da qui inizierà il suo ravvedimento. Noi ci soffermiamo sulla figura del cardinale tanto decantato dal Manzoni e rimaniamo in centro a Milano per ammirare una delle sue grandiose opere nel campo dell’arte: la Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana che Federigo ideò con si animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti , oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa di lui, spedì otto uomini, de’ più colti che potè avere, a farne incetta per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme.’

Tutto il curriculum di Federico Borromeo ce la sciorina con passione ed ammirazione lo stesso Manzoni nel XXII capitolo. Noi andiamo a sbirciare cosa c’è nella sorprendente struttura museale. La biblioteca fu inaugurata l’8 dicembre  1609 e fu una delle prime biblioteche ‘pubbliche’ il cui accesso era consentito a chiunque fosse in grado di leggere. L’approccio ‘inclusivo’ si manifesto nella volontà di raccogliere manoscritti e stampati provenienti da tutto il mondo, la pinacoteca fu istituita una decina di anni dopo e come patrimonio iniziale vi confluì la collezione dell’arcivescovo. Le acquisizioni e le donazioni di libri e opere d’arte proseguirono nei secoli ed oggi l’Ambrosiana vanta un patrimonio inestimabilmente ricco sebbene molte opere vennero depredate durante il periodo napoleonico e portate al Louvre. E chiaramente mai restituite. Tra i capolavori oggi possiamo ammirare:

  • il Codice Atlantico, la formidabile raccolta di disegni e scritti in ambito tecnico di Leonardo. L’opera di raccolta in un unico ‘volume’ avvenne nel sul finire del XVI secolo ad opere dello scultore milanese Pompeo Leoni che recuperò le singole carte dagli eredi dell’allievo di Leonardo e li incollò su grandi fogli di formato ‘atlantico’ che era appunto quello utilizzato per realizzare le carte geografiche. Il codice venne donato alla biblioteca ambrosiana dal nobiluomo milanese Galeazzo Arconati nel 1637. Anche questo prezioso documento fu portato a Parigi dalle truppe napoleoniche ma fortunatamente venne restituito a seguito delle imposizioni stabilite dal Congresso di Vienna;
  • il disegno preparatorio di Raffaello della Scuola di Atene per la stanza della Segnatura in Vaticano, un cartone di ben 8 metri divenuto parte della collezione di Federico Borromeo nel 1626;
  • il dipinto la Madonna del Padiglione di Botticelli, lascito da parte della nobildonna Fiorenza Talenti
  • la Canestra di frutta di Caravaggio, dipinto considerato il prototipo del genere delle nature morte
  • il Ritratto di Musico di Leonardo da Vinci che si porta dietro quell’aria enigmatica sia nell’espressione del giovane che nella sua identificazione;
  • dipinti di maestri milanesi come il Ritratto di Dama di De Predis, la Testa di Cristo e  San Giovanni Battista di Gian Giacomo Caprotti, l’Incoronazione di spine di Bernardino Luini e la copia della Vergine delle Rocce di Leonardo dipinta da Andrea Bianchi detto il Vespino, artista di fiducia di Federico al quale il cardinale commissionò diverse copie di dipinti cinquecenteschi.
  • vere e proprie reliquie come il pugnale che nel 1476 uccise Galeazzo Sforza e la ciocca di capelli di Lucrezia Borgia.

Federico Borromeo morì a Milano il 21 settembre 1631 ed è sepolto in Duomo di fronte all’altare della Madonna dell’Albero.

Riprendiamo il nostro romanzo. Tralasciamo la latitanza di Renzo nella bergamasca, tralasciamo il lavaggio del cervello di Donna Prassede, tralasciamo anche  Agnese con curato e Perpetua a rifugio dall’Innominato.

‘La non c’è più: andate.’ Rispose quella donna, facendo atto di chiudere. ‘Un momento, per carità! La non c’è più? Dov’è?’ ‘Al Lazzaretto’ e di nuovo voleva chiudere. ‘Ma un momento, per amor del cielo! Con la peste?’ ’Già. Cosa nuova eh? Andate.’

Renzo guarito, ai fatti diventato Antonio Rivolta per raggirar le gride, torna a Milano in cerca dell’amata che ha saputo a servizio di una nobile abitazione. Col cuore pesante del dubbio se la troverà viva o meno e afflitto dal maledetto voto che quella sua ossequiosa fidanzata ha promesso alla Madonna, è condotto al lazzaretto.

‘Il lazzaretto di Milano è un recinto quadrilatero e quasi quadrato, fuori dalla città, a sinistra della porta detta orientale, distante dalle mura lo spazio della fossa, d’una strada di circonvallazione, e d’una gora che gira il recinto medesimo. I due lati maggiori son lunghi a un di presso cinquecento passi; gli altri due forse quindici meno: tutti dalla parte esterna, son divisi in piccole stanze d’un piano solo; di dentro gira intorno a tre di essi un portico continuo a volta, sostenuto da piccole e magre colonne.’

La descrizione meticolosa ce la fa proprio il Manzoni nei capitoli XXVIII e XXXV così che lo possiamo ben immaginare. Ben poco è rimasto purtroppo di quel villaggio degli appestati. Edificato per far fronte all’epidemia del ‘400, era un struttura rettangolare su un’area di 140.000 mq formata da quattro fila di caseggiati ‘lunghi e bassi, con al centro una chiesa ottogonale. Ha ospitato, dopo quella del ‘400, le tre grandi pesti del ‘600: la peste del 1524 definita come la peste di Carlo V in quanto il ducato di Milano retto dagli Sforza era comunque assoggettato all’ancora esistente Sacro Romano Impero,  la peste di San Carlo del 1576 un po’ meno nefasta e la terribile peste del 1630 appunto la peste dei Promessi. Occupava lo spazio racchiuso tra le attuali vie San Gregorio, dove sorgeva il cimitero, Corso Buenos Aires, via Vittorio Veneto e via Lazzaretto.

‘S’immagini il lettore il recinto del lazzaretto, popolato di sedici mila appestati: quello spazio tutt’ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri dove di gente, quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi o della paglia,; e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichio come un ondeggiamento, qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici di serventi.’

Con la fine delle ondate malefiche, la struttura venne utilizzata per scopi militari, come magazzino, come area agricola e come fabbrica di cannoni, prima di essere demolito nel 1881 quando tutta l’area venne acquistata dalla Banca di Credito Italiano per 1,8 milioni che procedette alla lottizzazione dell’area per la costruzione di alloggi popolari.

Dunque cosa ne è rimasto? Tre sono le testimonianze ancora visibili:

  •  la chiesa ottagonale, più volte restaurata e rimaneggiata: la ritroviamo in Largo Fra Paolo Bellintani. Ai tempi Renzo la chiesa aveva già subito una modifica rispetto all’originale del ‘400 ma era comunque ancora aperta sui quattro lati come ci racconta il Manzoni. I numerosi morti da onorare a seguito della peste del 1576 portarono Carlo Borromeo a dare incarico all’architetto Pellegrini di ampliare la chiesa: i lavori cominciarono nel 1580 e da allora vennero istituite processioni per ricordare i morti della pandemia che avevano anche lo scopo di raccogliere i fondi per finanziare i lavori alla chiesa. Tali processioni andarono avanti fino alla fine dell’800 quando con il dominio napoleonico vennero abolite perché il lazzaretto divenne accampamento militare e si volle trasformare la chiesa in un monumentale Tempio della Patria. Per tale scopo venne dato incarico al Piermarini, che fece demolire la cupola e spostare l’altare per apporvi simboli di esaltazione della patria. Nel 1844 venne sconsacrata e divenne un fienile. Oggi la chiesa che vediamo ha subito ulteriori trasformazioni interne ed esterne, l’ultimo restauro risale al 2017 servito per rafforzare la struttura risultata indebolita dalle vibrazioni dei passanti ferroviari interrati.
  • le mura di alcune celle sono scampate alla demolizione e ora fanno parte del complesso della chiesa russa ortodossa di San Nicola in via San Gregorio. La chiesa, oltre ad essere meta di fedeli e amanti del revival manzoniano, è conosciuta  per il miracolo della lacrime che sembra scaturiscano da un’icona emanando un forte profumo di rose.
  • alcune colonne volutamente riciclate dall’architetto  XX per abbellire il cortile di Palazzo Luraschi, al civico 1 di Corso Buenos Aires. Questo è considerato il ‘palazzo dei promessi sposi’ non solo per le colonne superstiti volute proprio per futura memoria, ma perché il cortile è abbellito da medaglioni che riportano proprio i personaggi dei romanzo. Purtroppo il palazzo è residenza privata, ma si può approfittare di qualcuno che esce dal portone per intrufolarsi all’interno, come ho fatto io. Se poi c’è il custode penso sia solo orgoglioso nonché abituato a mostrar tanta bellezza. C’è anche una curiosità legata al palazzo: l’architettò sfidò la consuetudine di non costruire oltre una certa altezza in quella porzione di città per non ostacolare la vista sui monti, in particolare sul bel Resegone tanto amato da Renzo.

A oggi poi restano i nomi delle vie del quadrilatero della peste che rimandano ai protagonisti   delle varie ondate di epidemia.

‘Per riparare alla meglio, i due medici della Sanità (il Tadino suddetto e Senatore Settala, figlio del celebre Lodovico) proposero in quel tribunale che si proibisse sotto severissime pene di comprar roba di nessuna sorte da’ soldati ch’eran per passare’

Quindi via Lodovico Settala, via Alessandro Tadino, e ancora via Felice Casati, il frate cappuccino ‘instancabile’ nell’aiutare i degenti ‘uomo d’età matura, il quale godeva una gran fama di carità, d’attività, di mansuetudine e di fortezza d’animo’ e via Lazzaro Palazzi, architetto dei lavori di costruzione del lazzaretto finanziati dal notaio benefattore Lazzaro Cairati. Un nome che è tutto un programma.

Finalmente proprio qui nel tremendo lazzaretto i nostri protagonisti incontrano. Lei fa la smorfiosa, il voto viene sciolto, Don Rodrigo morente perdonato, Don Abbondio convinto a celebrare e un buon affare portato a casa. E finalmente si dà seguito alla tanto sospirata promessa. E vissero quasi felici e contenti, con qualche ombra e di questo ringraziamo il Manzoni che ci ha un po’ evitato un finale  tutto rose e viole delle favole.

Però non dimentichiamo che – anche se non parte del romanzo – ci sono altri tre luoghi ‘manzoniani’ da non perdere a Milano. Innanzitutto la Casa del Manzoni in via Morone 1 in pieno centro. Acquistata nel 1813 dal Manzoni nella prospettiva di una numerosa famiglia, per una cifra di 107.000 lire. La residenza si distribuiva su tre piani, dal primo si sviluppavano le stanze per la vita della famiglia di 10 figli  mentre il piano terra era dedicato allo studiolo del Manzoni, lì vennero partoriti i Promessi. Oggi la casa è visitabile, tutte le informazioni sul sito dedicato www.casadelmanzoni.it/

Poco distante si trova Piazza San Fedele dove il nostro romanziere cadde e battè la testa sugli scalini della chiesa procurandosi il 6 gennaio 1873 un trauma cranico che accelerò il suo decadimento fisico fino alla morte per meningite neanche sei mesi dopo. E per finire il nostro giro manzoniano non possiamo non rendere omaggio alla tomba del nostro amato autore posta al centro del Famedio nel Cimitero Monumentale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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