di Sandro Toso
Ottobre 2019
Fra la sponda orientale del Mar Caspio e il confine uzbeko si estende per 400 chilometri uno dei deserti più spettacolari e meno visitati che esistano, all’interno di una nazione a sua volta fra le più grandi e meno conosciute al mondo.
Il deserto è quello del Mangystau, e la nazione è il Kazakistan, un paese grande circa nove volte l`Italia, il nono stato al mondo per estensione e il più grande di tutti senza un accesso al mare, a meno di volere considerare come mare il Caspio, che di fatto è il più grande lago salato del mondo.
Il Kazakistan fu l’ultima e la più grande porzione di Unione Sovietica a rendersi indipendente nel 1991, e alla Russia è ancora legato da questioni strategiche ed economiche, oltre che da una certa affinità fra i governi.
Ad Aktau, città fondata negli anni cinquanta sulla rive del Caspio come centro petrolifero e minerario, il passato sovietico è visibile dai grandi edifici squadrati intervallati dalle larghe vie perpendicolari fra di loro, dal grandioso monumento ai caduti della seconda guerra mondiale, dal MIG che, alto sul suo piedistallo, punta minaccioso la sua prua in direzione del lago.
Qualche vecchia Lada o UAZ si intravede ancora fra i SUV e le grandi berline oggi molto più diffuse in questo paese al quale le risorse petrolifere conferiscono un benessere economico decisamente superiore a quello degli altri paesi ex-sovietici.
Ed è a bordo di una grande e moderna Land Cruiser che partiamo da Aktau per il nostro itinerario di tre giorni attraverso il deserto.
Il nostro autista Roman appartiene alla consistente minoranza russa rimasta qui in Kazakistan dopo l’indipendenza e, pur avendo sposato una donna kazaka ed essendo cittadino di questo paese, parla dei suoi connazionali chiamandoli “i kazaki”, a sottolineare che lui non è uno di loro. A parte questo vezzo, comunque, si rivelerà un’ottima guida oltre che una piacevole compagnia.
Appena fuori città il paesaggio si fa subito brullo e disabitato: ai lati della grande strada percorsa soprattutto da autocarri non si vedono abitazioni o persone, solo qualche piccolo branco di cavalli o cammelli allo stato semi-brado, con i loro vistosi segni di riconoscimento sui fianchi. E sì che, nei secoli passati, queste zone dovevano essere parecchio più abitate di adesso, come testimoniano le numerose moschee e necropoli abbandonate sparse nella vastità del deserto.
Shopana Ata è il principale di questi insediamenti, prende il nome da un mistico che visse qui molti secoli fa; oggi ha l’aspetto di un grosso villaggio abbandonato, con le sue casette cubiche di argilla, la cupola della piccola moschea del colore del terreno circostante e le centinaia di pietre squadrate che segnano i luoghi di sepoltura nella vicina necropoli. Quando arriviamo non c’è nessuno, regna un silenzio irreale, eppure il posto sembra vivere, le case sono spoglie ma in buono stato, sembrano abbandonate da poco, gli usci di legno semiaperti invitano a curiosare dentro; anche alla spoglia moschea sotterranea si accede senza problemi da una spessa porta di assi scendendo lungo la stretta scala di pietra. Siamo a poca distanza dalla riva, qui disabitata a perdita d’occhio, del Caspio: non è ancora deserto vero e proprio ma una steppa arida di rocce e arbusti e lungo la strada passiamo vicino alla principale ricchezza del paese, i pozzi di petrolio. Visti da lontano sembrano giganteschi uccelli intenti a becchettare le decine di martinetti che si muovono ritmicamente, incessantemente, in sincronia con i loro contrappesi, a pompare dal sottosuolo il prezioso liquido. Da vicino sono enormi macchinari che si muovono con movimento lento e ipnotico, uno sferragliare monotono, mentre a poca distanza le torri di perforazione trivellano il terreno a cercare nuovi giacimenti, nuova ricchezza in queste aride distese.
E’ ora di lasciare le strada asfaltata e di dirigerci verso il vero deserto, dove il vento e l’acqua, nel loro plurisecolare lavoro di erosione della roccia friabile, hanno dato vita alle più inimmaginabili formazioni.
Nella valle di Torish centinaia di grosse sfere di roccia danno al declivio l’aspetto di un improbabile immenso campo di bocce, mentre nell’Airakty le formazioni rocciose hanno l’aspetto di imprendibili fortezze; il canyon di Jylash si insinua come una profonda fenditura fra le bianche pareti calcaree; la montagna dello Sherktala ha una forma incredibilmente regolare, simile a una immensa yurta; a Bozhira gli speroni rocciosi ricordano i picchi dolomitici, mentre le Montagne Tiramisu hanno una colorazione stratificata che sembra impossibile poter essere opera della natura.
Ho visitato altri deserti, ma in nessuno ho visto una simile varietà di paesaggi in uno spazio relativamente limitato.
Al riparo di qualche altura l’efficientissimo Roman monta le tende e, sotto la veranda ricavata sul fianco della Toyota, il tavolino sul quale ci servirà per cena le ottime pietanze preparate dalla moglie, senza farci mancare vino moldavo, brandy kazako e caffè fatto con la moka. E’ piacevole passare la serata osservando le formazioni rocciose che, alla luce del sole che tramonta, assumono colorazioni rossastre per poi diventare cupe sagome che incombono sul nostro accampamento. Le tende sono confortevoli e, avvolti negli spessi sacchi a pelo, ci si addormenta ascoltando il rumore del vento che filtra fra le alture.
Passiamo due notti in questo modo e l’ultimo giorno attraversiamo la superficie bianca e abbagliante del grande lago salato di Tuzbair, una distesa salina simile alla piana della Dancalia in Etiopia o al salar di Uyuni in Bolivia, fenomeni che la natura ha sparso con parsimonia in alcuni dei luoghi più remoti del pianeta.
Roman affonda l’acceleratore su questa distesa che si estende piatta, senza margini e avvallamenti, per decine di chilometri, e dove il sole all’orizzonte crea il miraggio di specchi d’acqua inesistenti. Dopo la lunga appassionante corsa ci fermiamo per l’ultimo pranzo nel deserto, vicino ad una piccola altura dalle forme fantasiose, anch’essa di bianchissimo sale.Trascorriamo le ultime ore in questo incredibile luogo riempiendoci i polmoni della fresca aria e gli occhi dello spettacolo dell’orizzonte, dove il bianco della distesa salina incontra l’azzurro terso del cielo.
Questa sera raggiungeremo la cittadina di Beyneu, da dove un treno notturno ci condurrà a proseguire il nostro viaggio in Uzbekistan. Ma, in Kazakistan, ci torneremo.
Astana: la capitale.
La torre di Bayterek si distingue dal finestrino dell’aereo prima di atterrare a Nur Sultan, come viene chiamata ora ufficialmente Astana, in onore all’uomo forte del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, che ha governato ininterrottamente il paese per quarant’anni, prima come amministratore sovietico e poi come presidente, sempre eletto con percentuali di tipo bulgaro in poco credibili elezioni, prima di ottenere la nomina di presidente a vita. Fu Nazarbaev a volere trasferire qui la capitale da Almaty nel 1997 e, nel marzo del 2019, prima di cedere lo scettro del comando ad un suo pupillo, per continuare secondo molti ad esercitare il potere nell’ombra, l’ultimo atto del suo forte culto della propria personalità è stato quello di ribattezzarla con un nome che celebri per sempre la sua gloria, Nur Sultan, appunto.
Bayterek si trova al centro del grandissimo Nurzhol Bulvar, una sorta di Champs Elysees kazako che termina da una lato con il palazzo presidenziale, tutto in marmo bianco con la grande cupola turchese, simbolo del potere politico, e, dall’altro, con il gigantesco centro commerciale di Khan Shatyr, monumento alla prosperità economica. Un veloce ascensore ci porta fino alla grande palla vetrata in cima alla torre da dove si gode una spettacolare vista di questa città esistente da quasi due secoli, ma sviluppatasi secondo precisi piani da quando è diventata capitale.
Le hostess nelle loro vistose divise bianche e rosse ci indicano la lapide dove è scolpita l’impronta della mano di Nazarbaev, sulla quale ognuno può appoggiare la propria di mano, come segno beneaugurale, mentre sugli schermi continuano a scorrere le immagini dell’ex-presidente all’inaugurazione di questo monumento. La visione di Nazarbev, che lo accomunava ai leader dei colossi russo e cinese, era che lo sviluppo economico viene prima della democrazia e, almeno dalla visione della capitale che si ha qui dall’alto di Bayterek, l’immagine che si riceve e’ quella di ricchezza.
Come nel Mangystau la natura si è esibita nel creare le maestose forme nella roccia, qui la mano di celebri architetti venuti da vari paesi del mondo ha creato, ai lati del Bulvar, imponenti grattacieli di ogni forma e colore, squadrati, cilindrici, conici, con sommità a cupola o a pagoda, bianchi di marmi e azzurri di vetrate, alcuni interamente dorati, altri con inserti verde smeraldo o turchese, ognuno con un suo tratto distintivo più o meno apprezzabile.
Come la vista dei cammelli e dei cavalli nella steppa ci ricordava le tradizioni nomadi e pastorali, che ancora esistono in questo grande paese, così il monumentale centro di Nur Sultan ci comunica la sua volontà di procedere a tappe forzate verso il futuro.
Grattacieli a parte, gli architetti si sono ispirati alle più varie forme nella progettazione dei grandi edifici: il Khan Shatir, che nel suo interno, oltre a decine di negozi, bar e ristoranti, ospita una piccola ferrovia a monorotaia che scorre in mezzo ad un giardino tropicale, una piscina completa di spiaggia sabbiosa e palme e una torre a caduta libera, ha la forma di una grandissima yurta trasparente, mentre il Palazzo della Pace e dell’Armonia è una perfetta piramide; l’Università dell’Arte, tutta in vetro blu, sembra uno stadio dalla forma sbilenca, mentre il grande auditorium sembra formato da lastre appoggiate una sull’altra. L’edificio dalla forma più tradizionale è la moschea di Nur Astana, in marmo bianco e con la grande cupola dorata e contornata da quattro minareti, dentro la quale ci si sente veramente piccoli muovendosi fra le enormi colonne bianche i cui basamenti sono alti quasi come una persona, in un tripudio di tappeti, enormi lampadari di cristallo e bellissime decorazioni in verde smeraldo, manifestazione di fede e di opulenza insieme.
Durante la fredda serata il centro è rischiarato quasi a giorno dalle luci dei locali: fuori dai ristoranti alla moda e dai pub sono posteggiate auto di lusso e SUV, la gioventù benestante veste alla moda e la movida notturna è vivace anche in una sera infrasettimanale.
Naturalmente il Kazakistan non è tutto come in questa scintillante vetrina della capitale: nei giorni successivi visiteremo zone rurali dove nei villaggi la vita scorre con i ritmi di tempi da noi oramai dimenticati, dormiremo nelle semplici casette dei villaggi sperduti nella steppa dove si mangiano principalmente i prodotti del proprio orto e dove i grattacieli di Astana sono cose di un altro pianeta. Sono le grandi diversità, o anche contraddizioni, di un paese grande, ricco e cresciuto in maniera rapida nella sua breve storia.
Non sappiamo se gli abitanti delle steppe invidiano quelli delle città e se questi ultimi continueranno a essere paghi del benessere o vorranno, nei prossimi anni, maggiori libertà: siamo tutto sommato contenti di avere conosciuto, per quanto ci è stato possibile, anche questo poco noto angolo di mondo.