di Sandro Toso
Agosto 2022
Lungo la grande strada statale che serpeggiando fra le montagne sale verso il Chitral, nel nord del Pakistan, fra il traffico di auto e variopinti camion e corriere, passa senz’altro inosservata, a chi non la conosce, una piccola stradina sterrata che dall’asfalto della statale scende verso il greto del fiume sottostante. Priva di indicazioni su dove conduca, viene da pensare che si perda fra i campi, invece prosegue per molti chilometri, aprendosi il varco in tanti punti in cui sembrerebbe dovere finire, sempre più stretta fra la parete rocciosa da una parte e lo strapiombo sul fiume dall’altra, addentrandosi in una vallata sempre più chiusa e spopolata. La difficile accessibilità, ancora oggi, di queste zone, ci fa capire come il popolo che andiamo a visitare abbia potuto vivere per molti secoli isolato dalle altre etnie, conservando intatte le proprie tradizioni. Dopo diverse ore di viaggio reso ancora più lento dalla pioggia che rende la strada più difficoltosa e il fiume in piena inquietante (niente, per fortuna, in confronto alle alluvioni che in queste settimane hanno devastato il sud del paese, causando centinaia di vittime), giungiamo ad uno stretto ponte sospeso, il cui fondo di tavole di legno rumoreggia al passare del nostro fuoristrada, che superando di un balzo il fiume ci porta al bivio fra Bomburet e Rumbore, i due principali centri della Birir Valley, la valle del popolo Kalash.
Le origini di questa popolazione, una delle più piccole minoranze etniche al mondo, composta oramai da poche migliaia di persone, e le cui sembianze sono certamente molto diverse da quelle di qualsiasi altro pakistano che vedremo durante il nostro viaggio, continua a costituire un enigma per studiosi e antropologi. Una leggenda priva di fondamento li vuole di origine macedone, discendenti dei soldati di Alessandro Magno, ma nemmeno il DNA e i più moderni studi sono riusciti a chiarire la loro origine, certamente europea, e l’epoca e le modalità con cui sono giunti in queste sperdute valli, così come incomprensibile è la lingua, esclusivamente orale, parlata solo da loro e diversa da qualunque altra.
Per la maggior parte dei pakistani, di religione musulmana, sono i Kafiri, ossia gli infedeli, dato che continuano a praticare la loro religione animistica, anch’essa di lontanissime e misteriose origini.
Procedendo verso Bomburet, dove alloggeremo in una spartana guest house, i primi segni della “infedeltà” dei Kalash sono i coloratissimi abiti delle donne che incrociamo, del tutto differenti dagli austeri chador, e persino burka, delle donne musulmane che abbiamo visto finora. In questa valle tutto è stretto, la strada, le case, i villaggi che si sviluppano inerpicandosi lungo il fianco della montagna, fatti di case di pietra e legno letteralmente ammucchiate, le fondamenta di una poste a livello del tetto di quella sotto, e raggiungibili da strette e ripidissime stradine o scalinate.
Un ragazzino che sta giocando a pallone con i suoi amici fra le stradine, accortosi del nostro girovagare per il villaggio, ci invita a visitare la sua casa, accettiamo volentieri naturalmente, lui ci conduce fra stretti pertugi ad una porticina di legno per la quale si entra in una bassa e scura stanza, quasi claustrofobica, che costituisce l’intera abitazione. La madre, una donna che probabilmente, date le dure condizioni di vita, dimostra più degli anni che ha, è vestita anche lei con il vivace abito colorato e ci accoglie con grande gentilezza, lieta di mostrarci l’interno della modesta abitazione, i giacigli sui quali dorme l’intera famiglia e l’angolo cucina, con un braciere acceso per contrastare l’umidità e fare asciugare i panni stesi, il cui fumo rende l’ambiente ancora più soffocante, e il sottotetto dove vengono immagazzinati il grano e la legna da ardere. Il ragazzino, che parla un po’ di inglese, ci dice che la sua aspirazione è quella di diventare medico, e non possiamo che augurargli di riuscire a realizzare il suo sogno, anche se la vediamo abbastanza dura…
In un’altra casa ci viene offerto di assaggiare il vino, che i Kalash, in virtù del loro non essere musulmani, hanno la libertà di produrre. In realtà, quello che beviamo ha ben poco a vedere con il vino come lo intendiamo noi, somiglia ad un non ben definibile distillato che incontra poco o niente i nostri gusti, per cui, dopo un rapido assaggio, ringraziamo mostrando la massima gentilezza ma, fingendoci dei quasi astemi, ci defiliamo per non dovere continuare la degustazione.
La vita dei Kalash è legata soprattutto all’agricoltura, quindi allo scorrere delle stagioni, e lo stesso vale per le loro feste rituali, primaverile, estiva e autunnale.
Ora siamo in agosto e si celebra la festa più importante, quella dell’Uchal, ossia il festival del raccolto, col quale la comunità ringrazia gli dei della sua politeistica religione per il sostentamento che la terra le fornisce ogni anno. Non si tratta di una cerimonia unica, data la limitatezza di spazio (le piazzette nelle quali si svolgono le danze sono grandi poco più che dei cortili) e la distanza fra i villaggi, nei tre giorni di durata del festival, le prove e i festeggiamenti ufficiali sono scaglionati in diverse località, in orari che consentono a chi voglia muoversi di assistere a più di uno. La prima sera assistiamo alle prove che si svolgono a Bomburet, vicino a dove alloggiamo. Alla luce delle torce elettriche, seguendo la nostra guida ci inerpichiamo fra le stradine scoscese fino alla piccola piazza centrale del villaggio, gremita da donne e uomini che danzano in cerchio al suono dei tamburi, in un ambiente reso più suggestivo dalla scarsa illuminazione. Non riscontreremo una grande differenza fra le prove e la festa vera e propria cui assisteremo il giorno dopo a Rumbore, si tratta di festeggiamenti semplici, senza grandi solennità o discorsi ufficiali, ma, almeno questo è il nostro sentore, seguiti con grande partecipazione dalla gente, che pare non stancarsi mai di danzare e suonare. I costumi degli uomini sono meno vistosi di quelli delle donne, la maggior parte di loro si limita ad adornare il suo pakol di tipo afghano, indossato solitamente sopra una sobria tunica, con un fregio o un piccolo pennacchio. Le stesse persone semplici e gentili che ci hanno invitati a visitare le loro case, i loro laboratori, e offerto il loro vino, ci invitano ora ad unirci a loro nella danza, con i nostri abiti occidentali che stonano nel contesto etnico, ma non importa, divertirsi, stare allegri, dimenticare, almeno per questi pochi giorni, la vita dura di queste valli pare essere l’imperativo, e siamo quindi ben contenti di unirci a loro.
Trascorriamo una piacevole serata, quando ci congediamo le danze non sono ancora finite, il suono dei tamburi e i canti ci faranno ancora compagnia mentre prendiamo sonno, così come, terminato questo viaggio, il ricordo di questa piccola comunità colorata, gentile, annidata in un piccolo sperduto territorio di una grande nazione, ci accompagnerà, ne sono sicuro, per molto tempo a venire.