di Francesca Orioli
Agosto 2018
E’ risaputo come l’India abbia una capacità inspiegabile e quasi sciamanica di avvolgere e coinvolgere chi si presenta al suo cospetto. E’ un paese che ti si incolla addosso come un vestito bagnato, con il suo bene e con il suo male.
L’abito che si è appiccicato alla mia pelle è un sari della seta più preziosa, uno shantung tessuto a mano con quelle imperfezioni che lo rendono autentico e unico. Tanto privilegio perché abbiamo avuto, io e Giuliano, un’occasione speciale di sfiorare e farci toccare dall’India: la possibilità di trascorrere alcuni giorni nei villaggi supportati dall’associazione benefica Malar Trust.
Siamo venuti a conoscenza di questa onlus tramite un’amica appassionata di viaggi e attenta all’aspetto etico e umano nelle sue esperienze in giro per il mondo. Forti della fiducia nella ‘mediatrice’ abbiamo cominciato a seguire i reportage periodici sulla pagina facebook dell’associazione: supporti all’istruzione con doposcuola e distribuzione di borse di studio, corsi pratici di cucito per avviare ad un mestiere, diffusione della cultura dell’igiene e dell’utilizzo del sistema sanitario, aiuti a vedove e casi disperati. Il tutto rendicontato con un pizzico di sdrammatizzazione che mai caratterizza le più grandi e famose associazioni che markettizzano su sguardi patiti e corpicini scarni. Il racconto della campagna ‘Mutande per tutti’ in chiave comica con aneddoti e retroscena, a cui anche l’omertà di trisavoli siciliani si sarebbe inchinata, ci ha dato l’impulso finale ad andarli a trovare sul campo.
E così, qualche mese dopo, eccoci scendere da uno scassato e insardinato bus statale a Poonjeri, una fermata a richiesta prima di Mamallapuram, graziosa cittadina ricca di monumenti storici e archeologici sulla costa del Tamil Nadu, un’ottantina di chilometri a sud di Chennai.
Ci accolgono Giovanni, volontario e parte del consiglio direttivo, e Mani, il presidente di Malar Trust India. Davanti ad un ottimo chai, i referenti dell’associazione (non gli unici) ci introducono la parte teorica di quello che ci aspetterà nei prossimi giorni: la visita ai villaggi nei momenti di svolgimento delle attività di supporto di Malar correlata dalla spiegazione dei progetti in cui ogni attività si inserisce. Uscire dalla gabbia del proprio destino usando la chiave dell’istruzione, avere consapevolezza del proprio valore e della propria dignità per puntare ad una vita migliore: è questa la mission principale di Malar. No ad un assistenzialismo sistematico se non in casi davvero disperati, ma ‘creare basi’, portare l’individuo ad essere consapevole, a decidere per se stesso, responsabilizzandosi.
Obiettivi che si raggiungono con l’incentivazione a frequentare la scuola, il supporto all’istruzione con corsi paralleli di specializzazione, il pagamento di rette scolastiche e la distribuzione di borse di studio per favorire l’inserimento in un mondo del lavoro di più alto livello affinché il buon impiego consenta di vivere meglio. Quindi senza imporre dall’alto un diverso modo di vivere ma far capire alle nuove generazioni che ci possono essere delle alternative al di fuori del proprio villaggio e che possono valere anche per loro. Sapere, conoscere e quindi decidere se arrendersi al destino che la famiglia e la condizione sociale hanno scelto per loro o seguire una propria strada.
Malar significa ‘fiore’ in Tamil e il simbolo del fiore che sboccia tra le pagine di un libro ben sintetizza il senso principe di questa associazione. I fiori per gli indiani sono generalmente legati a riti propiziatori invece qui è traduzione di ‘prendere in mano le proprie sorti’, alla faccia dell’aleatorietà delle decisioni di Krishna, Visnu e compagnia cantante.
Di tutti questi valori ci siamo presto resi conto nel corso della nostra breve permanenza, abbiamo toccato con mano i risultati dell’oculata gestione della onlus e ci siamo fatti testimoni della serietà di questa associazione e della dedizione di tutti i volontari che permettono la realizzazione di piccoli-grandi progetti. Il 99,5% dei fondi sono raccolti in Italia, perché in India, ci viene spiegato, “i ricchi sono ricchi e i poveri sono poveri”, non è molto diffuso il concetto di aiuto al prossimo e il sistema delle caste certo ci mette del suo. Ma Mani, la sua famiglia allargata e tutti i volontari indiani ci hanno dimostrato che fortunatamente ci sono delle eccezioni.
La nostra ‘prova pratica’ inizia con la distribuzione della colazione ai bambini al villaggio di Panjartheerthi, ad una quindicina di chilometri da Poonjeri. Ci arriviamo in motorino con i nostri ciceroni Giovanni e Mani.
I bambini, di diverse età e classi, arrivano alla spicciolata davanti ad un piccola struttura arancione gestita da Malar: bambinetti più piccoli sono vestiti di verde, i ragazzini più grandi hanno la divisa curiosamente rosa per i maschi e blu per le femmine. Tutti con uno zainetto marchiato Malar. Io e Giuliano rimaniamo un pò in disparte con Giovanni e Mani. Il “disparte” è quasi un fatto naturale nel senso che la schiera di marmocchi prende naturalmente le distanze da noi. Se noi siamo in angolo a destra loro si ammassano a sinistra, con gli occhi puntati tra l’incuriosito e il “chi cavolo sei” e l’orecchio rivolto alla bocca dell’amichetto (o meglio diciamolo…dell’amichetta) per una battutina su questi nuovi musi bianchi che sono venuti a ficcanasare. Questo villaggio è di etnia Irular, carattere riservato e un po’ schivo. All’arrivo della cuoca e della sua grossa pignatta tutti si dispongono in cerchio sul pavimento del terrazzino antistante la struttura. Ci allontaniamo per non disturbare la distribuzione della razione di riso e intingoli e il ruspa-ruspa a quattro palmenti per il rifocillo. Dopo i primi bis di razione, Giovanni invita me, come esponente femminile, a fare primo passo, cioè sedermi in mezzo a loro. Una mano che saluta, un sorriso, qualche smorfia di tenerezza e pian piano i visini si sciolgono: prima le ragazzine più grandicelle poi, quasi all’unisono, presi dal coraggio collettivo, tutti gli altri. Cosi mi raggiunge anche Giuliano: ormai tutti, chi più e chi meno timidamente, ci regalano un sorriso e una manina volante. Ma basta smancerie è ora di andare, la campanella tra poco suonerà: ognuno va a sciacquare ordinatamente il proprio piatto, infila lo zainetto sulle spalle e via che parte: la scuola dei più piccolini è li vicino mentre per i più grandi passa il tuctuc-scuolabus sponsorizzato da Malar.
Noi andiamo a vedere il villaggio: nella prima parte ci sono un pò di casette in muratura poi via via solo capanne di canne esposte alle peggio intemperie. Qualche famiglia ha “rinforzato” il tetto con teloni in plastica, qualche altra ha adottato tecniche da ingegneria spicciola per sopraelevare il pavimento ma le fragili strutture rimangono pur sempre alla mercé della forza rabbiosa dei monsoni che possono portarsi via tutto l’esiguo patrimonio della famiglia in una folata.
Con la testa già piena di emozioni informazioni e riflessioni riprendiamo il motorino e andiamo verso l’asilo di Peryar Nagar. La scena di diffidenza verso i nostri musi pallidi si ripete. Bravi ragazzi, la storia ha dimostrato che talvolta è meglio tenere i bianchi alla larga. Ma noi veniamo in pace e mettiamo in atto la tecnica acquisita. Mi siedo per terra, prendo alcuni Lego sparsi sul pavimento e comincio a tirar su palazzi strambi e sgorbi irreali. Un bimbetto finto timido dall’altra parte della stanza osserva, costruisce la sua macchinina extraterrestre e la trascina verso la mia parte di stanza. Sto al gioco, trasformo il mio grattacielo in anfibio lunare e gli vado incontro, un pochino, senza esagerare. In poco tempo la fiducia è conquistata e vengo presto accerchiata. Gli scontri tra lego-mostri si trasformano in gara tra archistar a costruire la stramberia più alta, rubando mattonelle al compagno, fa niente se il manufatto non sta in piedi. Anche questa sembra storia già vista.
Finita l’ora di tecnica delle costruzioni si passa all’inglese: hands up, hands down incita la maestra e invita alla mimica applicata, poi la recita della filastrocca per imparare i numeri, frutti e animali dalla apple alla zebra, dall’inglese al tamil come se niente fosse.
Finalmente si mangia: la cuoca distribuisce un piatto di riso, sughetti di verdure, salsine piccanti e patatine. Con la scusa dell’integrazione scrocchiamo anche noi il pasto… ho una fame bestia. Tutti ridono perché non sono capace di mangiare con le mani, faccio casino e sbrodolo riso più di quanto ne caccio in bocca. Non ho superato neanche la prova di bere dal bicchiere senza toccare il bordo, come fanno loro con una pratica invidiabile. Rimandata a settembre (magari! Invece si tornerà in ufficio a sbrodolare tabelle excel).
In serata ci aspetta un altro giro pastorale: facciamo incursione nelle aule dei villaggi di Kamaraj Nagar e Eachamballam dove sono in corso i doposcuola di approfondimento organizzati da Malar. Mi sembra un po’ di disturbare, in più Mani ci presenta come i benefattori che hanno portato fondi per supportare le attività, tutti applaudono e io mi vorrei sotterrare. In questi villaggi l’etnia è diversa da quella dei villaggi precedenti, loro sono Dalit e non sempre corre buon sangue con gli Irular. Etnia che incontri atteggiamento che si ripete: nella foto di gruppo che Mani organizza, nessuno vuole mettersi accanto a noi! Qui abbiamo meno occasione di interagire e la sana diffidenza non fa in tempo a sciogliersi, però qualche sorriso e qualche salutino lo strappiamo.
Giovanni ci racconta un aneddoto interessante ed esplicativo di interazione Irular-Dalit: mesi prima in una classe di corso doposcuola in un villaggio Irular erano state iscritte 8 ragazzine Dalit. La cosa ha creato scompiglio e malcontento e i capifamiglia Irular hanno presentato mozione affinché non venissero più accettate iscrizioni di ragazzini/e di altre etnie. Agli occhi di noi occidentali con l’incubo dell’odio razziale può sembrare una questione molto spiacevole, ma con gli occhi indiani di una etnia che mostra reticenza ad apprezzare le forme di sostegno che le vengono offerte, questa ‘lotta’ per mantenere sereno il doposcuola istituito per loro assume l’aspetto di un orgoglioso traguardo. Chissà poi che tra Montecchi e Capuleti indiani non fioriscano belle amicizie.
Arriva il 15 di agosto, anniversario dell’Indipendenza indiana: festa grande alla scuola di Poonjeri. Al tavolo d’onore siede Mani, noi defilati ci godiamo le recite e i balletti dei bambini più o meno imbellettati. Ma l’illusione del dietro le quinte sparisce alla fine degli spettacolini: siamo invitati a distribuire schiscette di riso, biscotti e caramelle a tutti i piccoli attori e ballerini.
Ma il top arriva nel pomeriggio: la distribuzione di una tranche di borse di studio agli studenti più meritevoli. Il contributo di Malar varia a seconda del percorso di studi e comunque non è mai il 100% della quota di iscrizione alla scuola di specializzazione, una parte deve essere sborsata dalla famiglia in segno di impegno e di ‘volerci credere’. La quota più alta della tornata di quel pomeriggio viene assegnata ad una ragazza che si iscriverà alla facoltà di ‘Nutrition’: 20 mila rupie è il contributo di Malar (circa 250 euro) e 4 mila la quota in capo alla famiglia. Io e Giuliano non possiamo certo esimerci dal consegnare personalmente i contributi agli studenti con foto di rito degne del più blasonato dei tagli del nastro.
E’ giornata di pratiche amministrative, nonché di San Paganino. Arrivano insegnanti, cuoche, autisti di tuctuc-scuolabus presso l’ufficio di Malar a riscuotere il salario mensile. E’ Gaja Laskhmi, responsabile amministrativa, che tiene i conti e paga gli stipendi. Ci vengono anche mostrati i rendiconti: l’attività della onlus muove un bel giro, si spendono circa mediamente 3000 euro al mese per pagare gli stipendi, gli affitti e la manutenzione delle aule di proprietà, le bollette, il cibo, il materiale scolastico, l’assistenza medica, il carburante dei tuctuc oltre alle borse di studio, tasse scolastiche e supporto ai singoli progetti. E poi ci sono le spese straordinarie non periodiche.
Nei villaggi supportati da Malar sono stati costruiti pozzi per l’acqua potabile, un grande passo da queste parti. E’ buona norma, ci spiegano, mettere targhe dell’associazione che ha realizzato l’intervento, non certo per egocentrismo, ma per evitare casi di sedicenti organizzazioni che, mostrando orgogliosamente opere altrui come proprie, hanno incamerato fiducia e denari di innocenti finanziatori e se ne sono scappati quanto meno in qualche isola caraibica con il malloppo.
Ma ci sono anche finanziatori veri che, magari in maniera meno costante ma pur sempre con grande utilità, hanno dato il loro contributo in questi villaggi: un donatore solitario americano ha fatto costruire casette in muratura a Panjartheerthi, una benefattrice belga ha pagato capanne in cemento nel villaggio di Amjemeya, il Rotary sta mettendo le fondamenta per alcune case vicino all’asilo di Peryar Nagar.
Arriviamo all’ultimo giorno programmato presso Malar, ci prende la tristezza blu di chi vorrebbe rimanere. Concentriamo tutta la nostra energia nell’ultimo villaggio che visitiamo, Masimanagar, un insediamento di 55 famiglie provenienti da luoghi vicini ma che si sono ritrovati sfollati dopo lo tsunami del 2014. Anche qui Malar distribuisce la colazione e raduna i ragazzini per mandarli a scuola. In questo villaggio molti genitori lavorano entrambi al servizio di famiglie benestanti e i bambini rimangono soli, ecco che viene buono l’incentivo di un piatto di riso e una imbeccata verso la scuola. Anche qui c’è la solita diffidenza ma sorrisi e qualche sdolcineria ci avvicinano in fretta. Facciamo il pieno di questi visi genuini, schietti e sinceri perché ahimè è ora di andarcene. Tre giorni intensi, di quelli che ti rimarranno incisi nel cuore e faranno frullare la mente per secoli. Ci siamo sentiti estremamente fortunati a poter fare un’esperienza simile: un misto di congiuntura astrale e volontà nel voler imprimere ad una normale vacanza una nota diversa.
Ci siamo innamorati dell’approccio di Giovanni e del suo contributo nel mandare avanti l’efficiente baracca: una persona che ci ha colpito per la sua umanità legata ad un sano pragmatismo e ad una forte capacità di comprendere le reali necessità con quella giusta dose di distacco che permette di non cadere nell’assistenzialismo per intenerimento o compassione. Dev’essere una capacità che si acquisisce sul campo con calma e pazienza visto che io al terzo giorno avevo già i lacrimoni davanti ad una signora che nella sua lingua cercava di farmi capire le sue precarie condizioni di vita.
Già perché le situazioni di intervento vengono attentamente vagliate dal comitato direttivo composto in primis dal presidente Mani, da Giovanni e Fulvio. Poi in ogni villaggio ci sono sempre cinque referenti locali: quattro donne (perché sono più affidabili, ci confessa Giovanni…lo adoro!) e un uomo come garante (tutte uguali le società…). Abbiamo ammirato Mani che sacrifica la sua professione di scultore (peraltro bravissimo) per dedicare più tempo possibile a Malar, ci ha commosso quando ci ha raccontato di come abbia vissuto sulla propria pelle la carenza di istruzione e di come abbia voluto poi recuperare ‘da grande’, questo lo ha portato ad essere paladino della diffusione dell’educazione scolastica.
Grazie quindi a Giovanni, a Mani e a tutti i volontari indiani e italiani che abbiamo conosciuto, e grazie anche a quelli che non abbiamo conosciuto personalmente ma la cui presenza è stata avvertita sensibilmente. Grazie a tutti i nostri amici, parenti, colleghi e alla Fondazione Podium che ci hanno creduto insieme a noi affidandoci le loro generose offerte. A loro dedico questo racconto, che siano orgogliosi tutti del bel gesto che hanno fatto. E per chi vuole continuare a fare del bene: http://malartrust.org/come-aiutarci/ Garantisco io.
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