di Loredana Cecchini
Febbraio 2018
Un emozionante viaggio tra i villaggi della Valle dell’Omo, alla scoperta delle diverse etnie etiopi, delle loro tradizioni e peculiarità.
Soffrivo di mal d’Africa prima ancora di visitarla. Quelle sensazioni di strisciante nostalgia e sottile richiamo alla terra d’origine le sentivo già. Un paio di volte l’occasione di partire mi era sfuggita per un soffio, invece stavolta è arrivata senza che la cercassi e l’ho presa al volo. Destinazione Etiopia. Prima di partire mi sono informata su poche cose, quelle essenziali. Volevo accogliere l’Africa lasciando fluire sensazioni ed emozioni senza filtri.
L’arrivo ad Addis Abeba è stato solo una breve sosta verso la vera destinazione: la Valle dell’Omo, estremo sud. Un luogo fuori dal tempo, fuori dagli schemi, oserei dire fuori da tutto, un mondo fermo a secoli fa. Ho dovuto sospendere i miei modelli di pensiero occidentale per fare spazio a stili di vita molto diversi dal mio, non giudico se migliori o peggiori, semplicemente diversi, incredibilmente diversi dal mio.
È stato un viaggio itinerante lungo la valle del fiume Omo e nella zona dei grandi laghi per incontrare alcune delle 83 tribù etiopi, quelle che in questa zona vivono ancora secondo stili di vita primordiali.
Uno dei leitmotiv costanti di questo viaggio è stato lo scorrere lento della vita africana lungo le strade: donne e bambini con una tanica gialla sulle spalle che camminano scalzi per andare a prendere l’acqua; ragazzi e bambini che pascolano mucche e capre; ragazze che vendono banane e mango ai bordi delle strade; sciami di bimbi chiassosi e sorridenti che al rumore di un’auto sbucano di corsa dai villaggi e chiedono “caramella!” infilando le mani nei finestrini. Che spettacolo i bambini!!

La prima vera tappa del viaggio è ad Arba Minch e lo scorcio panoramico dal “Paradise lodge” mi toglie letteralmente il fiato. Un grandissimo spazio aperto, una piccola montagna di fronte e in mezzo una foresta da cui provengono versi di animali, urla e risate di ragazzini che fanno il bagno allegri in una grossa pozza d’acqua. Si tuffano, ridono, nuotano, giocano mentre le scimmie si lanciano da un ramo all’altro degli alberi. Sono il ritratto della libertà e di una vita che noi non conosciamo più.
Ad Arba Minch passiamo la prima notte africana circondati dal buio e sovrastati da un cielo carico di stelle.

L’indomani ci mettiamo in viaggio verso il villaggio della tribù Konso. L’impatto è forte. Tanti bimbi con le caccole incrostate sotto al naso e i vestiti logori ci seguono incuriositi a ogni passo; le donne sono segnate dalle difficili condizioni di vita; gli uomini sono riuniti attorno a un gioco di società mentre altri dormono a terra. Il villaggio è un fitto reticolo di stradine sterrate racchiuso dentro muretti a secco un tempo eretti a difesa da animali e tribù nemiche. Le capanne sono in legno e paglia e gli animali convivono con gli uomini. Nella piazza principale ci sono i ceppi delle generazioni: ogni 18 anni ne viene piantato uno, in questo modo si tiene il conto dell’età della tribù. Il senso di comunità è forte come lo è pure il legame con le tradizioni. I Konso sono agricoltori e il territorio intorno è segnato da terrazzamenti dove coltivano caffè e sorgo.

Riprendiamo la strada e qualche chilometro più avanti vediamo un incendio che si sta propagando. Una donna cerca invano di domarlo battendo le fiamme con un ramo. La nostra guida scende a dare una mano e mentre assistiamo alla scena sbucano alcune persone non so da dove, non vedo nulla attorno a noi. Sono della tribù Benna e io rimango incantata nel vedere i loro abiti, le acconciature dei capelli, le decorazioni del corpo. Un ragazzo viene verso di noi ma ci ignora e si dirige alla jeep ferma poco più avanti. Si avvicina allo specchietto retrovisore e rimane a lungo a guardare il suo viso riflesso. Un altro uomo si avvicina sorridendo, ci saluta “battendo il cinque” poi si gira a guardare l’incendio. Inizia a fare alcuni gesti rituali: traccia dei segni con le dita sul terreno sabbioso, sputa a terra, pronuncia parole incomprensibili rivolto alle fiamme. Lo osservo ammutolita e meravigliata mentre compie il suo rito ancestrale.
Quando riprendiamo il viaggio un magnifico sole infuocato segna il tramonto di questa giornata.

Al villaggio Omorate, dove vive la tribù Dassanetch, arriviamo attraversando il fiume Omo dentro un tronco d’albero scavato. Il villaggio è sotto il sole cocente, si sfiorano i 40°. Le capanne sono una vicina all’altra ricoperte di lamiera e foglie. Ovunque ci sono bambini che ci corrono incontro, ci seguono, si divertono a farsi fotografare e ridono rivedendosi nello schermo del cellulare. Hanno occhi profondi e sorrisi gioiosi. Il terreno è arido e loro sono ricoperti di polvere, portano collanine colorate e i capelli rasati. La gente è molto ospitale, ci accoglie con festosità. Le ragazze, riunite in cerchio e abbracciate una all’altra, iniziano a danzare per noi intonando canti tribali. Sono bellissime, hanno la pelle levigata, i corpi slanciati, delle bizzarre pettinature, gli abiti sgargianti e grandi collane coloratissime. Le guardo ammirata e mi sento davvero in Africa.


A Turmi incontriamo la Tribù Hamer. Oggi è un giorno speciale per loro perché un ragazzo deve affrontare il “salto del toro”, la cerimonia di iniziazione che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.


Tutto il villaggio è coinvolto in questa cerimonia e le donne sono protagoniste di un cruento rito tribale. Danzano, cantano, suonano un piccolo corno e si fanno frustare dai Maza, gli uomini che hanno già superato la prova del salto ma non sono ancora sposati. Ricevono i colpi impassibili, con fierezza, senza tradire alcun dolore. Alcune hanno ferite sanguinanti sulla schiena che mostrano orgogliose tenendo sollevata la maglietta, perché più ferite si hanno più si è considerate forti e coraggiose e quindi rispettate dalla tribù. Assisto a questo rituale incredula in un pomeriggio caldo, molto affollato e di grande confusione.
A un certo punto ci spostiamo tutti a piedi in un grande spiazzo distante per assistere al salto del toro. Una bimba mi prende per mano e cammina accanto a me, non abbiamo parole per comunicare, solo sguardi e sorrisi. Quando arriviamo mi siedo a terra e lei è sempre attaccata a me, con la coda dell’occhio mi accorgo che fissa la pelle del mio braccio scoperto. Mi guarda a lungo, mi scruta, mi osserva, poi prende coraggio e con un dito prova a togliermi i nei, convinta che quei piccoli puntini scuri non debbano esserci sulla mia pelle. Se sono bianca devo essere interamente bianca!
Intanto i tori vengono messi a fatica uno di fianco all’altro e davanti a tutti c’è un vitello, simbolo dell’adolescenza, che non dovrà essere toccato nel salto. Accompagnato dagli uomini arriva il ragazzo che deve affrontare la prova. È nudo, ha indosso soltanto due striscioline di stoffa incrociate sul petto. Guarda i tori, si concentra, prende la rincorsa e salta. Non tocca il vitello, poggia il piede sulla schiena di ogni toro e non perde l’equilibrio. Ripete il percorso 5 volte. La prova è superata! Ora è un adulto, potrà sposarsi, avere figli e possedere bestiame.
Dopo la cerimonia raggiungiamo un villaggio in cima a un’altura. È spazioso e ordinato, i recinti in legno dividono gli animali dalle capanne. Le donne sono intente a cucinare per la festa ma al nostro arrivo si avvicinano a stringerci la mano. Sono molto colpita dalla loro accoglienza, c’è un’atmosfera di grande pace e armonia. Il mio sguardo finisce sotto una tettoia dove, sdraiati a terra, ci sono dei bimbi di pochi mesi che dormono. Portano già bracciali, collanine e cavigliere. L’abbellimento del corpo è un punto cruciale per le tribù e inizia fin da subito. In un attimo mi ritrovo circondata da bambini festanti incuriositi dalla mia presenza e soprattutto dalla mia pelle bianca. Mi toccano e mi annusano, ho tanti nasini appiccicati al braccio che mi fiutano e poi ridono. Chissà che strano odore ho per loro? Ne prendo in braccio uno piccolissimo, è un meraviglioso cioccolatino morbido. Mi guarda spaesato, la pelle bianca lo spaventa e i suoi occhi si riempiono di lacrime. Lo rimetto tra le braccia della sorellina e lui subito si tranquillizza.

Ci lasciano entrare in una capanna dove una giovane donna sta preparando qualcosa sul fuoco. È bellissima e molto gentile, ci ha accolti in casa sua e risponde a tutte le nostre curiosità. Dietro di lei, seduta a terra, una donna cieca e molto anziana tiene un bimbo attaccato al seno. È una scena surreale, non capisco e chiedo. Mi spiegano che quando la mamma è impegnata è la nonna che offre il suo seno per calmare il piccolo. È un grande gesto d’amore che però si scontra con le mie rigidità culturali e mi rendo conto che la scena mi lascia interdetta.

Rimaniamo ancora un po’ in questo villaggio che nel frattempo si è illuminato dei colori del tramonto ed è ancora più bello. La tribù Hamer mi ha davvero conquistata, ho sentito tanta armonia e serenità con loro. Vado via a malincuore pensando che invece mi sarebbe piaciuto restare e condividere altri momenti della loro quotidianità.
Ogni tribù ha delle peculiarità che la distinguono dalle altre e che si manifestano nell’abbigliamento, nelle pettinature e nelle decorazioni del corpo. Anche quando a noi sembrano uguali, in realtà non lo sono. Ad esempio gli Hamer e i Benna per me erano uguali: le donne hanno tutte gli stessi abiti di pelle decorati con perline e conchiglie e le stesse acconciature con piccole treccine ricoperte di argilla mescolata a burro. E invece no, i Benna hanno la frangetta più corta e gli Hamer più lunga. Un semplice dettaglio che dettaglio invece non è.

La caratteristica della tribù Karo è il body painting. Dipingono il corpo come una tela, con grande cura. Il loro villaggio è su un’altura da cui si gode una magnifica vista sul fiume Omo che scorre in basso. I Karo sono stati però la tribù meno ospitale che abbiamo incontrato. L’uomo bianco è solo un pollo da spennare a cui chiedere soldi in cambio di una pittoresca foto-ricordo. In ogni villaggio abbiamo pagato una quota di ingresso, e ritengo anche giusto che il turismo sostenga queste tribù, ma loro sono stati insistenti, fastidiosi, quasi aggressivi.
Decidiamo perciò di rimanere pochissimo per sottrarci alla loro pressione e riprendiamo il viaggio lungo strade polverose godendoci il magnifico paesaggio dell’Omo Valley con le sue distese infinite e spettacolari, le montagne sullo sfondo, gli alberi di acacia qua e là e la totale assenza di auto.
Il viaggio per raggiungere la tribù Mursi sembra non finire mai. Ci inerpichiamo con la jeep su strade sterrate che ci fanno sobbalzare sul sedile provocando quello che simpaticamente chiamano “African massage”. In una specie di posto di blocco ci fermiamo, la nostra guida scende e scambia qualche parola con un uomo armato di kalashnikov, poi gli toglie il colpo in canna e lo lascia salire in auto. Cala uno strano silenzio e c’è una leggera tensione. Non so esattamente dove sono, siamo spersi da qualche parte in un luogo dimenticato e inaccessibile. Mi rendo conto che non sarei in grado di tornare indietro da sola quindi, mi dico, deve andare tutto liscio, non c’è alternativa. Non so perché siamo scortati da un uomo armato ma quando arriviamo al villaggio lo capisco.

I Mursi sono una tribù nomade molto temuta da tutte le altre. Sono ottimi guerrieri, chiusi nel loro territorio, non si mescolano con le altre tribù, neanche con il matrimonio. Hanno una pelle nerissima, una fisicità imponente, il corpo dipinto e copricapi elaborati fatti con zanne di animali o materiali tra i più disparati. Le donne si estraggono i 2 incisivi inferiori, perché considerato un segno di bellezza, e portano il piattello labiale, che è la caratteristica di questa tribù.
I bambini non ci circondano festosi come era sempre accaduto e gli adulti ci accolgono con un certo distacco. Hanno un’espressione seria e altera, mi incutono un certo timore. Le donne hanno quasi tutte un bimbo sulla schiena. Avvicino la mano per accarezzare uno di quei faccini che sbuca dal fianco della madre, ma lo faccio lentamente perché non so quale reazione avrà la donna. Lei se ne accorge, resta immobile con lo sguardo in avanti ma mi lascia fare. Il bimbo, al contrario, mi regala un meraviglioso sorriso tutto sdentato.
Osservo tutto attorno a me e sono frastornata, pensavo di aver già visto tanto e invece l’incontro con i Mursi mi chiede uno sforzo ancora maggiore. Sono dentro un’Africa ancora più Africa.

Guardo l’aspetto della gente, le labbra sfigurate dal piattello, le acconciature stravaganti, le capanne di paglia che mi ricordano quelle nei sussidiari delle elementari, gli oggetti della quotidianità così semplici e primitivi. È come se le foto del National Geographic si fossero materializzate davanti ai miei occhi e io fatico a capacitarmene.
Il villaggio dell’etnia Dorze si trova a 2500 metri di altitudine e fa un gran freddo. In compenso la tribù ci accoglie con grande calore esibendosi in balli e canti di cui sono protagonisti soprattutto i bambini, che si muovono disinvolti con il ritmo nel sangue. La musica, scandita dal coro di voci e dal battito di mani, è coinvolgente ed entra nell’orecchio in un istante. Impossibile non assecondarla. È la prima tribù che vedo vestita come noi. Le donne portano fazzoletti legati in testa a turbante o con fiocchi vistosi. Ai piedi hanno quasi tutti le scarpe o almeno delle ciabatte.

Mi colpiscono in particolare le case, sono diverse da quelle delle altre tribù a cominciare dall’altezza di 9 metri e dalla forma che ricorda la proboscide di un elefante. Sono costruite con le foglie di finto banano, una pianta che sembra un banano ma non dà frutti. Lo utilizzano con grande maestria, non solo nelle costruzioni ma anche in cucina. Ciclicamente le case vengono attaccate dalle termiti e allora se ne taglia un pezzo alla base riducendo così l’altezza. Di conseguenza più alta è la casa e più è recente la sua costruzione. Per via delle basse temperature il fuoco all’interno è sempre acceso e gli animali vivono assieme agli uomini.

Gli abitanti ci mostrano con piacere le loro tradizioni: una donna fila del cotone come facevano le nostre nonne, lo usano per produrre tessuti coloratissimi che vendono in un angolo del villaggio;

una ragazza ci prepara il kotcho, il pane ricavato dalla polpa del finto banano, che ha la forma di una piadina. Seguiamo tutto il procedimento fino alla cottura che avviene tra due grandi foglie. Una volta pronto, lo mangiamo con miele e una salsa piccante, accompagnandolo con una specie di grappa talmente alcolica che non riesco a mandarla giù.
I Dorze sono una tribù molto aperta verso l’esterno tanto da aver costruito alcune “stanze” da affittare a chi volesse rimanere qualche giorno, un prototipo di guesthouse dentro il villaggio. L’idea mi piace moltissimo e chissà che un giorno…
Con l’etnia Dorze si conclude il nostro itinerario nella valle dell’Omo. Un volo interno ci porta a Lalibela nel nord del Paese, un luogo Patrimonio Unesco per le sue incredibili chiese scavate nella roccia, alcune semplicemente abbozzate, altre lavorate fin nei dettagli, come la famosa Biete Giyorgis, scavata in un unico blocco dal livello del terreno verso il basso. Gli interni sono ricchi di dipinti religiosi e tendaggi colorati, i pavimenti ricoperti di tappeti su cui si cammina scalzi. Alle pareti ci sono dei bastoni ai quali i fedeli si appoggiano durante le lunghissime liturgie. Abbiamo avuto la fortuna di trovarci qui di sabato e di poter assistere alle cerimonie religiose affollate di cristiano-ortodossi avvolti in vesti bianche che, nelle donne velano il capo, e negli uomini formano dei turbanti. Illuminati solo dalle candele o da qualche spiraglio di sole che filtra dalle porte e da qualche piccola finestra, i fedeli si uniscono nella preghiera in un’atmosfera davvero suggestiva e perfettamente conciliante con la spiritualità del luogo.

Le 12 chiese, raggruppate in 3 siti, si trovano in una vasta area a 3000 metri di altitudine in un paesaggio brullo ma molto evocativo e ho come l’impressione di trovarmi dentro un presepe. Cammino lungo le stradine e il mercato circondata da uomini con mantelli sulle spalle e il bastone in mano, muli carichi di sacchi, capre e mucche in libertà. La cittadina di Lalibela, nelle intenzioni del fondatore, il Re Lalibela, doveva essere la nuova Gerusalemme e vive ancora oggi di una profonda religiosità.

Sono tantissime le cose interessanti e curiose che ho imparato in questo viaggio. Ad esempio che gli abitanti delle tribù riescono a vedere di notte, come gli animali, perché il loro occhio si adatta al buio. E poi che gli etiopi non conoscono la loro età perché non vengono registrati alla nascita. E poi ancora ho imparato che i rasta sono nati in Etiopia, che qui è normale vedere uomini per strada camminare tenendosi per mano, che l’Etiopia è il paese d’origine del caffè, che le strade di Addis Abeba non hanno un nome.
E ho anche capito che è possibile vivere con molto poco e che in quel poco si può trovare il proprio senso. Noi l’abbiamo dimenticato e consideriamo necessarie un sacco di cose in realtà totalmente superflue e inutili.
L’Africa la sognavo da tanto. In Etiopia l’ho vista, l’ho vissuta, l’ho sentita addosso. Mi ha dato così tante emozioni da esserne stordita. E quella sensazione di sottile richiamo alla terra d’origine è sempre lì, non ancora del tutto appagata ma solo in attesa del prossimo volo verso sud.
FOTO GALLERY
Complimenti!!! Fantastica descrizione,un sogno nel mio cassetto che spero presto poter realizzare.
Meraviglioso! Bellissima descrizione, hai una dote nel trasportare le persone all’interno del tuo racconto, catturi l’attenzione, e con estrema bravura rendi il lettore protagonista della tua storia e partecipe delle tue emozioni.
Completamenti per la bravura e la particolare attenzione nella stesura del testo.
Ciao Rachele, ti trasmetto il ‘grazie’ da parte dell’autrice Loredana. Sono assolutamente d’accordo con te! Francesca
Grazie Rita! Era anche un mio sogno nel cassetto e viverlo è stata pura felicità. Auguro anche a te di viverlo con la stessa intensità. Loredana